L’esperienza vale più del titolo di studio? Ecco cosa pensano i recruiter italiani.
7 Aprile 2025
Un’indagine realizzata da Indeed in collaborazione con YouGov fotografa un cambiamento profondo nel modo in cui le aziende italiane selezionano i candidati: oggi, l’esperienza sul campo conta più delle qualifiche accademiche. Una tendenza che impone nuove riflessioni a candidati, recruiter e al sistema formativo nel suo complesso.
L’esperienza batte la laurea: il 64% dei recruiter italiani non ha dubbi.
Secondo i dati raccolti da Indeed e YouGov, il 64% dei recruiter italiani assumerebbe un candidato con esperienza lavorativa sul campo ma privo di laurea, piuttosto che uno con un titolo accademico specifico ma senza esperienza.
Un dato chiaro, che non lascia spazio a interpretazioni: la laurea non basta più. O, meglio, non è più l’elemento distintivo che garantisce di per sé un vantaggio competitivo. Il “pezzo di carta” può essere utile, ma non sempre risulta determinante nella fase di selezione.
Questa evoluzione rispecchia una trasformazione profonda della cultura del lavoro: se un tempo il titolo di studio rappresentava un indicatore diretto della capacità di svolgere un’attività professionale, oggi viene sorpassato da una valutazione più orientata alle competenze dimostrate, alla concretezza e alla spendibilità immediata del profilo.
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Recruiting: verso una selezione basata sulle competenze
La ricerca evidenzia con forza che le aziende stanno cambiando il loro approccio alla selezione, adottando criteri più aderenti alle esigenze reali delle organizzazioni. È il caso di un modello skills-first, che mette al centro abilità, esperienze e capacità operative, anche se sviluppate al di fuori dei contesti accademici tradizionali.
Il report sottolinea come le aziende «stanno sempre più privilegiando una valutazione dei candidati in base alle loro esperienze, abilità e capacità specifiche». In pratica, ciò che un individuo è in grado di fare concretamente assume un’importanza superiore rispetto a ciò che ha studiato o certificato formalmente.
Il quadro che emerge è quello di una crescente consapevolezza: le competenze possono essere acquisite in molti modi diversi, anche attraverso percorsi non formali, esperienze di vita, attività lavorative atipiche o extracurricolari.
Questo approccio, spiega Gianluca Bonacchi – Talent Strategist Advisor di Indeed – permette alle aziende di attingere a un bacino di candidati più ampio e variegato, valorizzando talenti che altrimenti rischierebbero di restare invisibili ai filtri tradizionali.
Titoli accademici: ancora utili, ma non sempre decisivi
Nessuno mette in discussione il valore della formazione accademica. Il titolo di studio continua a essere un prerequisito indispensabile per determinati settori, soprattutto quelli altamente regolamentati o dove è richiesta una base teorica specifica (come la sanità, l’ingegneria, la giurisprudenza).
Tuttavia, in molti altri ambiti, l’indagine suggerisce che le qualifiche formali stanno gradualmente perdendo il loro potere discriminante. In altre parole, non sono più considerate una garanzia sufficiente per determinare la qualità di un profilo professionale.
Il mercato sembra premiare sempre di più chi ha dimostrato sul campo di saper svolgere un ruolo, di avere spirito pratico, autonomia e capacità di adattamento. E questo vale anche quando mancano i classici “bollini” accademici.
Carenza di profili qualificati: l’esperienza come risposta
Alla base di questo cambio di paradigma c’è anche un dato preoccupante: l’86% delle aziende italiane coinvolte nell’indagine lamenta difficoltà a reperire profili di qualità.
Una cifra che descrive con efficacia il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, e che spiega perché molte organizzazioni si stiano aprendo a criteri di valutazione più flessibili e basati sulle reali competenze dei candidati.
Le difficoltà di assunzione sono aumentate per il 63% dei datori di lavoro italiani negli ultimi tre anni. I motivi principali?
- Il 43% segnala l’assenza di candidati con le competenze richieste;
- Il 28% evidenzia una scarsa corrispondenza tra il background dei candidati e i requisiti delle posizioni aperte;
- Il 27% lamenta aspettative economiche troppo elevate da parte dei candidati.
Questo scenario spinge molte aziende a ripensare i propri criteri di selezione, accantonando in parte la logica del curriculum perfetto e cercando di valorizzare le potenzialità reali.
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Come le aziende stanno rispondendo: job description, tool e formazione
Per affrontare le criticità emerse, le imprese stanno mettendo in campo diverse strategie. L’indagine ne elenca alcune tra le più adottate:
- Revisione delle job description (26%): i testi degli annunci vengono adattati per riflettere in modo più preciso e realistico le competenze realmente richieste, evitando elenchi generici di titoli o requisiti standardizzati.
- Investimento in nuovi strumenti per il recruiting (26%): sempre più aziende si affidano a software e piattaforme capaci di scandagliare il mercato del lavoro con maggiore precisione e flessibilità.
- Miglioramento di salari e benefit (24%): per attrarre candidati validi, molte imprese rivedono le condizioni offerte, cercando di rispondere meglio alle aspettative del mercato.
Ma la risposta più significativa riguarda la formazione interna: il 77% dei datori di lavoro intervistati ha già modificato – o prevede di modificare – i propri programmi di training per colmare il gap di competenze tra candidati e ruoli da ricoprire.
Questa attenzione crescente alla formazione dimostra come l’apprendimento continuo sia diventato una leva cruciale non solo per la crescita, ma anche per l’efficacia dell’onboarding e la retention dei nuovi assunti.
Il curriculum cambia forma: cosa deve emergere davvero
In un contesto sempre più orientato alle competenze pratiche, anche il modo di presentare la propria candidatura deve cambiare.
L’indagine lo dice chiaramente: le competenze acquisite vanno messe in evidenza, con chiarezza e concretezza. Questo vale in particolare per chi ha già avuto esperienze significative, anche se non certificate da titoli.
Oggi, un curriculum efficace è quello che:
- Descrive bene i progetti svolti, i risultati ottenuti e le competenze utilizzate;
- Evidenzia le esperienze rilevanti anche se informali, come volontariato, progetti personali o corsi extra-accademici;
- Traduce i percorsi accademici in competenze reali, legandole a scenari e problemi concreti.
In altre parole, non conta solo dove si è studiato, ma cosa si sa fare e in quali contesti si è imparato a farlo.
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Come supportare un approccio skills-first? Il contributo della tecnologia
In uno scenario in cui le aziende rivalutano l’esperienza rispetto ai soli titoli di studio, anche gli strumenti digitali possono fare la differenza. Piattaforme come Fluida, ad esempio, permettono di rendere più trasparente e tracciabile l’intero percorso lavorativo dei dipendenti, valorizzando le competenze acquisite sul campo.
Attraverso la gestione semplice e automatizzata di presenze, turni e attività Fluida aiuta le aziende a leggere meglio i dati legati alla produttività e alle capacità operative delle persone. Informazioni concrete, utili a favorire decisioni basate non solo su curriculum e certificati, ma anche su evidenze reali e quotidiane.
Recruiting: un cambiamento che riguarda tutti
La selezione del personale non è più solo una questione di titoli, ma di adattabilità, esperienza, visione concreta del ruolo. Il dato del 64% dei recruiter italiani che privilegiano l’esperienza sul titolo di studio racconta di un cambiamento profondo e strutturale.
Questo scenario richiede uno sforzo congiunto:
- Da parte delle aziende, per adottare criteri di selezione più inclusivi e realistici;
- Da parte dei candidati, per valorizzare ciò che davvero li rende efficaci;
- Da parte del sistema formativo, per ripensare il modo in cui prepara le persone al mondo del lavoro.
Un mondo che, sempre di più, premia chi sa fare, chi è pronto, chi ha dimostrato valore sul campo. Anche senza un 110 e lode in bacheca.